Dalla neutralità alla autenticità del terapeuta

Freud riteneva che l’analista dovesse essere come uno schermo bianco o uno specchio, in grado di riflettere il materiale che il paziente portava, senza far trasparire alcunché di sé. A tal proposito si sedeva dietro di lui, così da ridurre al minimo l’interferenza della propria soggettività. Addirittura riteneva elementi imprescindibili come sesso, età e razza quali “inevitabili ma deplorevoli difetti” dell’analista. In aggiunta a ciò considerava qualsiasi risposta emotiva del terapeuta come un vero e proprio ostacolo al trattamento. Ferenczi fu il primo ad osservare quanto questo atteggiamento freddo, distaccato e autoritario fosse ritraumatizzante e replicasse l’insincerità dei genitori.
Oggi è alquanto unanimemente riconosciuto che il trattamento si appoggia sulla reciproca influenza tra paziente e terapeuta. Concetti come campo analitico, matrice transfert-controtransfert sono condivisi dalle diverse correnti psicoanalitiche che convergono non solo sulla impossibilità quanto sulla tossicità del controllo del coinvolgimento emotivo del terapeuta nella relazione analitica. Il terapeuta prende parte all’incontro analitico con tutto il suo babaglio di esperienze, la sua storia, i suoi vissuti, la sua fisicità. Io sono presente nella stanza d’analisi con tutto quello che sono. E non potrebbe essere altrimenti. E’ presente la mia storia personale passata e presente, i motivi della scelta di questa professione, la mia storia analitica, le mie preferenze, i miei atteggiamenti, la mia realtà fisica. Tutto di me colora il movimento del campo insieme al paziente. Lungi dall’essere un ostacolo, è il più prezioso strumento e alleato di cui dispongo.