Cercando sul vocabolario la parola solitudine, trovo al primo significato "stato di chi è, chi vive, solo". Cerco quindi il significato di solo e trovo, al primo punto, "che è senza compagnia, che non ha nessuno accanto, vicino o insieme". Resto un po' perplessa, perché credo manchi una precisazione fondamentale, non linguistica bensì psicologica, che è poi ciò che fa della solitudine, di per sè neutra, un'esperienza positiva o negativa, cercata o indesiderata.
Esiste una solitudine fisica e ne esiste una psichica, interiore. Si può essere in mezzo a una folla e sentirsi soli, o al contrario esercitare la propria creativa capacità di "stare soli in presenza dell'altro" (Winnicott magistrale a riguardo).
Così, la solitudine può essere utile a concentrare attenzione ed energie, amplificandole. Può permetterci di ritrovarci, mettendoci in contatto fecondo con aspetti di noi, scoprire cosa desideriamo, pensiamo e sentiamo. Sarebbe perciò bene ritagliare degli spazi per noi stessi quotidianamente, o perlomeno 3/4 volte alla settimana, un po' di quel sano egoismo non necessariamente viziato dai sensi di colpa che finisce per migliorare le nostre relazioni ed attività.
Possono invece necessitare di attenzione clinica, agli estremi opposti: la paura della solutidine, spesso camuffata con un ossessivo riempirsi di impegni, e la solitudine vissuta come senso di abbandono profondo, sensazione di non avere alcuna relazione e persona di cui fidarsi.
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Le persone solitamente arrivano in terapia con la richiesta generica di tornare a stare bene e, spesso, con l'aspettativa di veder sparire il sintomo, meglio se in pochissimo tempo. Ma siamo davvero sicuri che sopprimere il sintomo significhi guarire? Nessuno di noi si sognerebbe di nascondere la luce spia della benzina pensando che così arriverà serenamente a destinazione. Nè tapperebbe la valvola della pentola a pressione accesa sul fuoco. Eppure si arriva in terapia dopo aver provato di tutto per mettere a tacere quel fastidioso sintomo che ha sconvolto un andamento dell'esistenza altrimenti ottimale... ma ne siete proprio sicuri? Il fatto che tentare di zittire il vostro corpo che sta provando a parlarvi non abbia prodotto frutti non vi fa desistere dal percorrere questa via? Non vi fa decidere che forse è il caso di fermarsi ad ascoltare cosa vi sta dicendo? Vi sorprenderò, ma il sintomo è la più grossa benedizione che vi sia potuta capitare, un'occasione che l'inconscio si dà e vi dà per cambiare. E allora proviamo insieme ad ascoltare ciò che avete fatto tacere troppo a lungo. Per non tornare a stare come prima, perchè è esattamente quel "prima" che vi ha condotto a stare male.
Le recenti decisioni e dibattiti sull'infanzia in merito a scuola e covid mi hanno indotto ad andare a ricercare una disamina molto interessante pubblicata nel libro "Sulla soglia della psicoanalisi" (2007), che trovo estremamente attuale. In questo testo viene sviluppata l'evoluzione del concetto di infanzia, di cui si inizia a parlare in modo differenziato solo nel Sette- Ottocento. Se in precedenza i bambini vivevano immersi nel mondo degli adulti, mescolati tra loro, a partire dall'Ottocento si crea un abisso insuperabile e compaiono i tabù (sessualità, morte). Se prima i bambini erano considerati luogo del peccato, ora diventano luogo dell'errore, determinando una pedagogia volta a correggerli. Pieni di vizi ed imperfezioni per la vicinanza con la natura selvaggia, testimonianza della discendenza dell'uomo dalla bestia, possono essere perfezionati allontanandoli dalla loro natura istintiva per indirizzarli verso quello che è il nuovo mito moderno, l'autocontrollo. Ciò va di pari passo infatti con il processo di civilizzazione come progressivo controllo sulle pulsioni e sugli affetti che contraddistingue la nostra civiltà a partire dalla modernità. Da questo momento e a differenza del passato, le nuove regole hanno un valore simbolico più che pratico, e molte di esse attestano una inedita separazione dei corpi. Trovo queste argomentazioni decisamente attuali. I bambini sono oggigiorno in larga parte descritti come esseri pulsionali, istintivi e viziosi, la cui esuberanza esplosiva può (simbolicamente e non solo) distruggere l'ordinamento della società e la stessa umana sopravvivenza. Basti vedere come le regole sono applicate in modo più stringente e restrittivo nei loro casi e le motivazioni che di ciò vengono date. Io personalmente non condivido questa visione parziale dell'infanzia, né li vivo così pericolosi, per quanto riconosco che ti costringano a rimetterti continuamente in gioco e scardinare le tue abitudini e credenze. Considero parziale anche la visione opposta, per cui i bambini sono solo purezza e tenerezza. Preferisco tendere ad abbracciare la naturale ambivalenza dei e verso i bambini e mi sento più a mio agio con quella pedagogia che li considera esseri con potenzialità da far emergere e sbocciare più che da reprimere. Quale visione dell'infanzia sentire più valida è una scelta fortemente personale, ma a prescindere da questo credo che sia importante chiedersi quale teoria del mondo, della società e dell'essere umano permei e stia alla base delle convinzioni personali che ognuno legittimamente esprime. Solo così possiamo argomentare in modo consapevole. Vi lascio con questa riflessione: "Il bambino diventa il rappresentante del desiderio nella sua forma imperiosa, cosicché imparare a rapportarsi con questo bambino, sarà per gli adulti imparare a rapportarsi con i propri desideri imperiosi" (cit.). E voi, quale destino riserverete ai vostri desideri imperiosi?
Prendo spunto dai recenti fatti di cronaca e dalla lettura di un articolo di Mattia Feltri per condividere una riflessione sulle dinamiche di gruppo facilitate dalla diffusione dei social media, che ci consentono di esprimere le nostre emozioni più primitive in un contesto "protetto" ma al contempo amplificandole. Stiamo attenti alla deresponsabilizzazione che inducono in noi che scriviamo, all'eco che le nostre parole avranno e ai fenomeni di massa. Poniamo attenzione a non diventare noi il branco che giustizia i carnefici divenuti ora vittime. Il fenomeno degli haters prolifera sui social perchè questi ci garantiscono l'anonimato e un'apparente sensazione di impunità e superiorità morale, oltre a disumanizzare l'altro (ricordiamo che il primo passo per consentire i campi di sterminio è stato spogliare le vittime della loro umanità, renderle numeri, uguali e indefiniti). Conserviamo la nostra umanità.
Partendo dal dato Istat per cui separazioni e divorzi sono in netto e costante aumento, voglio qui soffermarmi sui casi in cui siano presenti dei figli. E' molto importante riflettere sull'impatto che la separazione ha su di loro, ma più ampiamente sulle modalità relazionali messe in atto e che essi hanno respirato quotidianamente. La separazione della coppia genitoriale indubbiamente richiede ai figli elevati sforzi di adattamento ed attiva aree di vulnerabilità, ma solitamente é anche culmine di litigi e conflitti accesi. Fondamentale per una sana gestione di questa area di vulnerabilità è la capacità dei genitori di mantenere integro il loro ruolo genitoriale mentre affrontano la conflittualità di coppia. Ovvero, entrambi i partner devono ritirare l'investimento dall'ormai ex coniuge e ridefinire le relazioni familiari, salvaguardando però il loro ruolo in quanto genitori. Altrettanto essenziale è la capacità di legittimare tutti i vissuti che il bambino/a sperimenta, senza colpevolizzazioni o rivalse. Sono compiti ardui, perciò non bisogna vergognarsi di chiedere aiuto. Ricordiamoci che ogni crisi contiene in sé non solo pericoli e destabilizzazioni, ma anche opportunità di cambiamento.
Il fiato si fa corto, la pressione aumenta, la testa ti gira, il petto ti duole, tutto si fa confuso, hai brividi o vampate, accompagnati da sudorazione. Il tutto accade all'improvviso ma, a parte la prima volta, tu lo sai già, hai passato i giorni precedenti ad attenderlo, con ansia, i nervi tesi a cogliere ogni possibile avvisaglia. Eppure lui ancora una volta ti ha colto alla sprovvista. Non sai più cosa fare. Sei andato dal dottore, spesso al pronto soccorso, hai temuto un infarto. Tutti ti dicono che non hai nulla, non ci sono cause organiche, sei perfettamente sano. Ma no, aspettate, controllate ancora, non sono matto... o forse sì? Tutti ti dicono che è lo stress, di calmarti, che è tutto nella tua testa, che vuoi solo attenzioni, di smetterla con quelle scene perché c'é chi sta male davvero e non si lamenta come te. Eh già, fosse così semplice. Tu ci hai provato, ci provi tutti i giorni a stare calmo, a tornare alla vita di prima. Già, la vita di prima, non ti riconosci più, come vivi ora non ti piace ma non hai idea di come sia successo né di come fare a tornare quello di prima. E tutte quelle frasi, quei giudizi, ti fanno solo sentire in colpa e assaporare una quotidiana sensazione di fallimento. Ma, è importante che tu lo capisca, non è colpa tua. Questi sintomi che tanto ti infastidiscono e che cerchi di mettere a tacere sono come delle parole, un linguaggio straniero che ti abita. Il problema è che ti manca un vocabolario adeguato per comprenderle. Questo è quello che una psicoterapia, la cura attraverso le parole, può compiere insieme a te. Dargli ascolto, cercare di capire quale messaggio inascoltato ti stanno comunicando, e tradurlo in parole comprensibili e dicibili. Perchè quello che può essere detto non fa più paura.
Riflettevo nei giorni scorsi sull'ombra dello stigma sociale che accompagna i sentimenti di chi si rivolge ad un professionista della salute mentale. Ancora oggi persistono vergogna e disagio a "confessare" ai propri cari di aver intrapreso un simile percorso, ma per fortuna le cose stanno decisamente cambiando e si riscontra una maggiore apertura. In una società come la nostra che enfatizza il mito di un'indipendenza estremizzata e assoluta (a cui fa da contraltare il proliferare di nuove forme di dipendenza patologiche), quello che mi sembra rappresentare attualmente il più grande ostacolo a rivolgersi ad uno psicoterapeuta consiste nella difficoltà di ammettere di non farcela da solo e, conseguentemente, affidarsi per un periodo indefinito ad un'altra persona. Per dirla con Bolognini (2020), "La ferita narcisistica connessa al chiedere aiuto e all'accettare il vincolo, la dipendenza e le regole del lavoro analitico, sembra essere al tempo stesso il fattore e l'ostacolo maggiore che impedisce in molti casi oggi un accesso immediato al lavoro analitico continuativo [...]". Per intraprendere un percorso psicoterapeutico bisogna innanzitutto venire a patti con le proprie mancanze, accettare di non essere perfetti nè tantomeno autosufficienti, e secondariamente affermare la propria disponibilità ad una relazione oggettuale stabile, su cui fare un investimento affettivo profondo. Significa dunque in primo luogo esporsi al rischio che ogni relazione comporta, in una situazione peraltro di cui non si conoscono in partenza le regole. Così, scrivere quella email o digitare quel numero di telefono, sono azioni che richiedono spesso ripetuti ripensamenti o un coraggio impulsivo, ma in ogni caso meritano la massima comprensione e rispetto.
BIBLIOGRAFIA:
BOLOGNINI S. (2020), "Nuove forme psicopatologiche in un mondo che cambia"
A differenza della paura, che è un'emozione reattiva ad un pericolo, ed in quanto tale funzionale a mettere in atto comportamenti per uscire da quella situazione, l'ansia attanaglia senza abbandonarvi perché non vi é un oggetto specifico da cui vi difendete. O meglio, ci sono esperienze stratificatesi che determinano tale reazione, ma l'oggetto originario è stato così abilmente rielaborato e camuffato nel tempo che non riuscite più a percepirlo distintamente nè a sottoporlo ad un esame di realtà. Si può meglio descrivere come la sensazione di sentirsi costantemente sotto attacco, senza però percepire di chi siete il bersaglio. E' importante riconoscere che si tratta di un vissuto reale ed involontario. A nulla serve invitare la persona a reagire, facendo leva sulla propria forza di volontà e su ragionamenti razionali, anzi questo non fa altro che far sentire l'individuo non capito e frustrato. Date le caratteristiche di questo disturbo, senza entrare nel dettaglio delle varie forme che può assumere (ansia generalizzata, fobie, ossessioni, ecc.), è indisensabile rivolgersi ad un professionista insieme al quale esplorarne le radici profonde, ascoltando - in un luogo a questo deputato - quello che il sintomo-ansia ci sta dicendo del funzionamento del soggetto, piuttosto che metterla a tacere.
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Mi ritrovo spesso a confrontarmi con le credenze errate che abbiamo sulle cosiddette "emozioni negative" (rabbia, dolore, disgusto). Oggi vorrei condividere con voi una breve riflessione sulla rabbia. Se consideriamo l'etimologia della parola "aggressività", troviamo il termine latino "ad-gredior"= andare verso. La rabbia origina da un dolore, una ferita, un varco che l'altro ha aperto nel nostro mondo interno, lasciandoci vulnerabili. Ed è la reazione naturale e biologica volta a ristabilire i miei confini, mentre cerco di rimarginare quella lacerazione (per questo necessita di tempo per scemare). Un'emozione. Nè più né meno delle altre. Può farmi immaginare le più feroci atrocità, ma restiamo nell'ambito lecito del fantasticare. E' il dopo, come noi gestiamo questi momenti, la possibilità di elaborarli e, come nella tecnica giapponese del kintsugi, esaltarli trasformandoli in preziose cicatrici dorate, che fa la differenza. La rabbia anzi fortifica una relazione, di qualsiasi natura essa sia, proprio perchè avvicina le persone, le quali hanno la possibilità di confermare questa vicinanza lasciando aperte le vulnerabilità emerse anziché, come sovente accade, chiudendole precipitosamente. La carne viva che è stata scoperta può, in un rapporto sano e vitale, essere comunicata e condivisa all'altro e diventare patrimonio unico, gioiello inestimabile per quella relazione.
"Non è la rabbia ad uccidere i rapporti, ma la stanchezza. Se mi arrabbio, ci sono. Se mi arrabbio, ti penso. Se mi arrabbio, mi sei dentro. Ma, se mi stanco, mi spengo. Se mi stanco, sono altrove. Se mi stanco, mi hai perso" (cit.)
Seguo con interesse il ritorno di Recalcati in televisione, che diffonde tra la gente una prospettiva psicoanalitica. Dopo aver affrontato nella passata edizione la famiglia, nel nuovo programma si occupa di "Lessico amoroso". Spesso in terapia si presentano problematiche riferite alla coppia, anche in sedute individuali. Al di là della storia personale e delle aspettative, conferme e dei desideri o bisogni inconsci proiettati nell'altro e nella relazione, che non possono che essere affrontati in vivo nel setting terapeutico, vorrei qui proporre una breve riflessione sulle diverse modalità di gestione del conflitto come indicatori della salute di una coppia. Premesso che il conflitto si presenta inevitabilmente in ogni incontro, dal momento che l'alterità si pone ontologicamente come scarto di significato, e che l'odio è intrinsecamente legato all'amore, anzi salva l'individuo dal rischio di collasso simbiotico, differenti sono le vie per gestirlo. Alcune coppie sono incapaci di portarlo alla luce, sviscerarlo e risolverlo in senso evolutivo; in tal caso esso può rimanere latente o anche manifestarsi ma cristallizzato, sotto forma di rivendicazioni, offese e umiliazioni che mortificano l'altro. La coppia può anche sopravvivere nel tempo, ma non costituisce un elemento vitale e arricchente per gli individui che la compongono. Del resto, tutto ciò che non è manifesto, lavora sotto sotto, indisturbato, come nella bellissima metafora freudiana dell'iceberg. Al contrario, laddove il conflitto è sostenuto dalla sincera preoccupazione per il benessere dell'altro e dalla consapevolezza profonda del valore di quella coppia, allora esso può essere espresso apertamente, affrontato, per portare i due ad un livello di intimità e condivisione superiore e più profondo. Come la vignetta magistralmente illustra. Del resto, l'aggressività è solo uno dei modi possibili di "andare incontro" all'altro e vi sono relazioni in cui essa pare assente, ma in realtà l'intero rapporto è strutturato su un conflitto latente.
#psicologavolterra #psicologaaltavaldicecina
"Empatia" è un termine oggi molto usato e, spesso, abusato. Dall'originario significato di "patire con" siamo giunti ad una interpretazione dell'empatia come il vivere le stesse emozioni dell'altra persona, "al posto di". Questa deriva di significato convoglia alcuni elementi che mi preme portare alla luce. Dato che io, nella migliore delle ipotesi, posso auspicare di essere in contatto con i miei vissuti, ritengo alquanto inverosimile sperimentare le emozioni di un altro individuo (basterebbe leggere Pirandello). Credere ciò possibile e addirittura esaltarlo nasconde in realtà il diniego della separatezza tre me e l'altro e cela in sè una fantasia simbiotica arcaica molto potente. Diffonde, mascherandola, una trama narcisistica in cui mi aspetto che l'altro si faccia specchio dei miei stati d'animo. Infine, sostiene fenomeni di dipendenza, in cui a essere veicolata è l'idea che tu da solo, senza questa eco in realtà vuota di significati aggiuntivi, non puoi riuscire.
Piuttosto, poniamoci come obiettivo nelle nostre relazioni quello di incontrare l'Altro, il diverso, e di essere entrambi in questo incontro autenticamente noi stessi.
"I giochi dei bambini non sono giochi, e bisogna considerarli come le loro azioni più serie..." (Michel De Montaigne)
E’ paradossale, ma come Penelope che di notte disfa la tela tessuta durante il giorno, così noi lottiamo strenuamente per cambiare le cose e... per mantenere lo status quo. Lo vediamo continuamente in psicoterapia. La motivazione a stare bene e risolvere i sintomi e le angosce è controbilanciata da una spinta ad aggrapparsi ad essi. A volte predomina una piuttosto che l’altra, a volte si equivalgono... ma state pur certi che coesistono. Sempre. Insomma, abbiamo una sorta di sabotatore interno. Dobbiamo pensare che il sintomo, per quanto invalidante e fonte di sofferenza per la persona, è sorto come tentativo di preservare la psiche dal collasso, se ne è in qualche modo preso cura, e l’individuo vi si aggrappa come estremo baluardo. Non lo abbandonerà senza sacrificio. Se a questo aggiungiamo che uno dei più forti meccanismi psicologici è la coazione a ripetere, capiamo come tenderemo a mettere sempre in atto i medesimi schemi comportamentali e relazionali, opponendoci a qualsiasi modifica sostanziale. Essi ci garantiscono l’illusione di padroneggiare la situazione. Essere responsabili di quello che accade, anche se negativo, è sempre meglio che essere impotenti. Se da un lato desideriamo fortemente qualcuno o qualcosa che li sconfessi, allo stesso tempo quando ciò avviene ci lascia sgomenti e disorientati. La realtà, come ce la siamo finora raccontata, si mostra differente e noi siamo privi di punti di riferimento. Semplifico, decontestualizzando, a titolo esemplificativo. Se ho vissuto esperienze di rifiuto e non disponibilità o non attendibilità dagli altri significativi, mentre cerco disperatamente qualcuno che resti e resista, contemporaneamente metterò inconsciamente in atto una serie di strategie volte ad allontanare gli altri, sottoponendoli a prove ardue e sfiancanti. E quando se ne saranno andati avrò la conferma alle mie aspettative. Conferma allo stesso tempo deludente e confortante. Rifiutare è meglio che essere rifiutati. Almeno il soggetto può sentirsi attivo e mantenere un’illusione di controllo, evitando l’impatto traumatico dell’imprevedibilità degli eventi. (Ricordiamo che il trauma è tale nel momento in cui va al di là delle capacità dell’individuo di farvi fronte). Ma se dovessi incontrare qualcuno che sopravvive ai miei attacchi e resta, ciò potrebbe essere meraviglioso, ma... beh, non mi fiderò, non gli crederò e anzi intensificherò gli assalti. Tollerare qualcuno che sconfessi i propri pattern, implica aver già compiuto un lavoro su di sè. La psicoterapia, all’interno della quale le stesse dinamiche verranno messe in atto, incontrandosi con gli schemi relazionali di quello specifico terapeuta, può permettere a tali meccanismi inconsci automatici di emergere, essere osservati e portati a coscienza, insieme alle esperienze in presenza delle quali sono sorti. Solo così sarà lecito per la persona abbandonare dinamiche disfunzionali ed aprirsi a nuove possibilità. Ampliare il ventaglio di comportamenti e stili relazionali a sua disposizione e sentirsi meno “agito” da forze soverchianti.
Lo stesso Freud dice che non capisce le donne,
che non sa cosa vogliono.
Suppongo che una donna voglia le stesse cose degli uomini,
vale a dire un quantum di realizzazione e felicità.
M. Langer
Certo le conclusioni cui giunse Freud sull’evoluzione femminile non potevano essere definitive. Lo ammise lui stesso. Già psicoanalisti a lui vicini evidenziarono prospettive differenti, volte a definire la donna in positivo. Da più parti (Horney, Jones, Klein, Adler, Thompson) emersero osservazioni che deviavano l’attenzione dall’invidia del pene, presupponendo la presenza di sensazioni vaginali precoci e analizzando il ruolo della società nel definire l’uguaglianza tra femminile, passivo, sottomesso, così come nel diniego dell’aggressività e del desiderio sessuale della donna. Altre voci (Fromm-Reichmann) si sollevarono a contrastare la svalutazione della capacità pro-creativa femminile, temuta dagli uomini per il suo misterioso potere: dare la vita mette in gioco il potere di toglierla.
Ma è soprattutto a partire dagli anni ’80 che la riflessione psicoanalitica si è occupata in modo sistematico di definire le peculiarità dell’evoluzione psichica femminile. In particolare, le teoriche americane, sensibili all’influenza delle teorie interpersonale e delle relazioni oggettuali, si soffermano sulle specificità legate all’attuale costellazione familiare, asimmetrica, con un padre assente ed una madre principale agente di cure. Lo sviluppo è diverso perché la femmina è dello stesso sesso della mamma. La madre incontra l’Altro nel maschio e finisce invece per confondersi con la figlia e viverla come sua estensione.
Dal punto di vista psicofisico, la bambina percepisce il suo corpo come inadeguato, né di uomo, né di donna. I genitali femminili sono privi di rappresentazione, mancano di uno spazio simbolico: “il corpo della bambina è vuoto dentro e piatto fuori” (Arcidiacono, 1996, p.53). Il piacere sessuale è rinviato ad un futuro lontano, vago e misterioso, quando un uomo le schiuderà questa possibilità. Allo stesso tempo, le sensazioni vaginali precoci rinviano ad un interno misterioso, che incute timore sia nell’uomo che nella donna; per di più, vi è l’impossibilità per la bambina di verificare l’integrità dei suoi organi, angoscia che solo la maternità potrà sanare. Ciò collude con il riconoscimento che la nostra cultura dà al corpo femminile in quanto gravido: di esso si parla – in abbondanza – solo quando contiene un bambino che gli dà valore. “Il problema della maternità viene per lo più affrontato indipendentemente dalla sessualità femminile, come se la maternità stessa non fosse primariamente una fondamentale funzione psicosessuale” (Brustia Rutto, 1996, p.158). La caratteristica principale della femminilità sembra quindi essere l’invisibilità, cui si contrappone il “troppo” del ventre pieno, misterioso e potente. Franca Ferraro e Adele Nunziante-Cesaro (1985, p.19) assumono “lo spazio cavo del corpo della donna come luogo centrale della femminilità”. Laddove questo spazio può colorarsi come buco, spazio da riempire, luogo distruttivo, ma anche come pieno originario. Da un lato infatti è necessario saper tollerare spazi di vuoto, dall’altro si impone il concetto di spazio cavo come contenitore creativo, attivante una trasformazione, potenziale e progettuale.
Queste riflessioni, lungi dall’essere definitive, hanno sicuramente il merito di mettere in luce le specificità dello sviluppo psicosessuale femminile che necessariamente si differenzia da quello maschile e che con tale consapevolezza deve essere affrontato.
BIBLIOGRAFIA:
ARCIDIACONO C. (1996), Identità femminile e psicoanalisi. Da donna a donna: alla ricerca del senso di sé, Franco Angeli, Milano.
BADINTER E. (1980), L’amore in più. Storia dell’amore materno, Fandango Libri, Roma, 2012.
BRUSTIA RUTTO P. (1996), Genitori. Una nascita psicologica, Bollati Boringhieri, Torino.
FERRARO F., NUNZIANTE CESARO A. (a cura di) (1985), Lo spazio cavo e il corpo saturato, F. Angeli, Milano.
LANGER M. (1951), Maternità e sesso, Loescher, Torino, 1981.